
Le pagine che seguono sono dedicate a quei ragazzi che un giorno, anni fa, incontrai in Calella de la Costa. Tornavano da una partita di calcio e cantavano: "vinciamo,perdiamo ma ci divertiamo"
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LETTERATURA E CALCIO O...... CALCIO E LETTERATURA?????

..........Il
sacco di concime bianco era bastato a malapena, e il tracciamento dei
confini era avvenuto sotto lo sguardo sofferto di Alvaro Cristóbal, che
da almeno quattro ore masticava una litania d’imprecazioni ininterrotte.
La partita iniziò alle dieci e mezza secondo l’arbitro, le undici e
cinque secondo l’orologio di don Cayetano. Comunque, il sole era alto. E
le gambe di Quintino una massa di gelatina disossata. Pepe Gongora non
ci mise granché ad accorgersi che il suo unico fuoriclasse era ridotto
peggio di lui, che per la “cruda” conseguente alla bevuta della sera
prima, faticava persino a insultarlo. Quintino era la sola speranza di
strappare la palla agli avversari, visto che El Zopilote non teneva le
braccia spalancate ma strette sulla pancia dolorante, e in dieci minuti
gli avevano infilato sei reti. Quelli della Pizpireta, poi, sembravano
tutti sul punto di schiattare d’apoplessia per il gran ridere. Il figlio
del padrone si era addirittura fatto male, cascando dal tetto della
jeep durante una contorsione azzardata, e adesso continuava a
sghignazzare premendosi un fazzoletto sull’occhio. Un disastro. Pepe
Gongora, con un sospiro così profondo da provocargli una fitta alle
tempie per l’eccesso di ossigeno, decise che Quintino se ne andasse in
porta e al suo posto entrasse Luisito, il figlio di Chepe Chamaco, il
quale per quanto tozzo e sgraziato, avrebbe se non altro rallentato a
spallate e testate quella corsa verso il baratro.
Pepe
alzò le braccia per segnalare il cambio, ma gli arrivò una scorza di
cocomero sulla nuca lanciata dal maniscalco del rancho, e nel voltarsi
di scatto scivolò finendo sulle ginocchia di Alvaro Cristóbal, che per
reazione istintiva gli vibrò una bastonata sulla schiena. Proprio in
quel momento, Quintino ricevette una spinta da un avversario che lo fece
volare di faccia nel fango. Tutto intorno esplose l’inferno. Urla,
pernacchie lunghissime, pesanti allusioni sulle abitudini sessuali degli
abitanti maschi di San Isidro, affermazioni irripetibili sullo stesso
argomento ma che avevano per oggetto le galline, e così via. Don
Cayetano balzò in piedi fremendo di rabbia. E quando gli piovve addosso
una manciata di tostaditas adobadas, che lo imbrattarono di peperoncino e
olio rifritto, l’alcalde di San Isidro don Cayetano Altamirano estrasse
dalla cintura la vecchia ma fida Colt Frontier Quarantaquattroquaranta,
e sparò tre colpi in aria.
Ci
fu un discreto silenzio, subito dopo. Nessuno replicò, anche perché la
tifoseria della Pizpireta poteva contare al momento solo su qualche
machete e una cinquantina di coltelli, e per andare a prendere i fucili
dalle case bisognava perdere un buon quarto d’ora.
Intanto,
Quintino stava fortunatamente pensando che del futból non gliene
importava poi molto, e non lo sfiorava neppure lontanamente l’idea di
pentirsi per quanto aveva lasciato succedere la notte precedente; però,
con la faccia sul terreno, sentiva egualmente una sensazione di dolore
morale per aver deluso a quel modo i compaesani di San Isidro.
Rassegnato a farsi sostituire, tirò su la faccia e vide il pandemonio
acquietarsi. Solo a quel punto collegò il rumore appena sentito al
grosso revolver che stringeva in pugno don Cayetano. E per la vergogna
di aver trascinato il suo alcalde in una simile situazione, riabbassò il
viso, sfiorando il fertilizzante bianco di Alvaro Cristóbal. Infatti
era caduto proprio sul limite del campo, e in un singhiozzo di rabbia si
riempì il naso di quella polvere bruciante.
Il
primo impulso fu di soffiare forte per farla uscire, ma gliene era
entrata abbastanza da finirgli anche in gola. Si alzò, cercando di
togliere il “concime” dalla faccia, ma non ebbe neppure il tempo di
starnutire che Pepe Gongora, riavutosi dalla bastonata di Alvaro
Cristóbal, avanzò verso di lui brandendo una sedia. Quintino, più per
sfuggirgli che per altro, si lanciò di corsa nella mischia, dove finì
sulla palla e quasi senza rendersene conto prese a schivare avversari
come un invasato, a menare calci negli stinchi e gomitate fra le gambe, e
intanto correva, correva, attraversando il campo da una parte
all’altra, e si ritrovò davanti El Zopilote e per poco non gli tirò in
porta, e pochi secondi dopo era davanti a quella opposta, dove sparò un
tiro che mandò il pallone a trapassare la rete e la sua stessa scarpa
nello stomaco del portiere. Rimessala al piede, tre minuti dopo segnava
ancora, e quando l’arbitro riappoggiò la palla al centro, non diede agli
altri neppure il tempo di capire da dove era sbucato, che già tutta San
Isidro esultava per il terzo gol. Al termine del primo tempo, Quintino
pareggiava sei a sei. Pepe Gongora piangeva abbracciato ad Alvaro
Cristóbal, che si limitava a battergli la mano sulla testa borbottando
commosso, e tutti saltavano e restituivano gesti osceni a quelli della
Pizpireta, mentre don Cayetano sostituiva le tre cartucce usate nel
tamburo della Colt, sorridendo beffardo sotto i lunghi baffi a manubrio,
che con gli anni erano diventati bianchissimi e spioventi. Quintino
aveva occhi solo per Antonia, che lo fissava con orgoglio e lampi di
promesse facilmente decifrabili. Però, quando dovette rialzarsi dalla
panca per tornare in campo, ebbe la sensazione che la stanchezza di due
giorni gli piombasse di colpo nei polpacci. Era stato un errore sedersi.
Provò
a sgambettare per liberarsi da quei ceppi invisibili, ma l’energia
inspiegabile che lo aveva posseduto poco prima sembrava volatilizzata.
Iniziò il secondo tempo, e lui ce la metteva tutta per correre dietro a
quel pallone diventato di nuovo troppo veloce e scivoloso per i suoi
piedi pesantissimi. L’entusiasmo dei compaesani s’incrinò al settimo gol
della Pizpireta. E quando segnarono l’ottavo e il nono, don Cayetano
tornò a pensare, come più di mezzo secolo prima, che sei colpi sono
pochi per una pistola. Ripresero a piovere insulti e cibarie sugli
attoniti abitanti di San Isidro. Quintino adesso era più spompato che
all’inizio. Correva a bocca aperta e le braccia ciondoloni, col fiato
che sembrava fermarsi in gola e non voler scendere fino ai polmoni.
Allora, essendo molto superstizioso e attento ai gesti rituali, decise
di ripetere in ogni dettaglio la sequenza che aveva preceduto il
miracolo inspiegabile.
Fingendo
di scivolare, andò a cadere con la faccia nel medesimo punto,
affondando il naso nella polvere bianca che marcava i limiti del campo.
Respirò profondamente, si rialzò, e in pochi secondi le gambe tornarono
leggere e sibilanti come la brezza tra i chilamates della Sierra.
Quando
l’arbitro si portò le quattro dita alla bocca per fischiare la fine,
Quintino neppure se ne accorse. Più tardi, gli dissero che il
quindicesimo gol non era valido, e lui ci restò malissimo.
San Isidro Futból - Pino Cacucci
Il
rigore più fantastico di cui io abbia notizia è stato tirato nel 1958
in un posto sperduto di Valle de Rìo Negro, una domenica pomeriggio in
uno stadio vuoto. Estrella Polar era un circolo con i biliardi e i
tavolini per il gioco delle carte, un ritrovo da ubriachi lungo una
strada di terra che finiva sulla sponda del fiume. Aveva una squadra di
calcio che partecipava al campionato di Valle perché di domenica non
c’era altro da fare e il vento portava con sé la sabbia
delle dune e il polline delle fattorie.
I
giocatori erano sempre gli stessi, o i fratelli degli stessi.
Quando avevo quindici anni, loro ne avevano trenta e a me
sembravano vecchissimi. Dìaz, il portiere, ne aveva quasi quaranta e i
capelli bianchi che gli ricadevano sulla fronte da indio arcuano. Alla
coppa partecipavano sedici squadre e l’Estrella Polar finiva sempre dopo
il decimo posto. Cedo che nel 1957 si fossero piazzati al tredicesimo
e tornavano a casa cantando, con la maglia rossa ben ripiegata
nella borsa perché era l’unica che avessero. Nel 1958 avevano cominciato
a vincere per uno a zero con l’Escudo Cileno, un’altra
squadra miseranda. Nessuno ci badò. Invece, un mese dopo, quando avevano
vinto quattro partite di seguito ed erano in testa al torneo, nei
dodici paesi di Valle si cominciò a parlare di loro.
Le
vittorie erano state tutte per un solo goal, ma bastavano a
far rimanere il Deportivo Belgrano, l’eterno campione, la squadra
di Padìn, di Constante Gauna e di Tata Cardiles, al secondo posto, con
un punto di distacco. Si parlava dell’Estrella Polar a
scuola, sull’autobus, in piazza, ma nessuno immaginava ancora che alla
fine dell’autunno avrebbero avuto ventidue punti contro i ventuno
dei nostri.
I campi si riempivano per
vederli finalmente perdere. Erano lenti come somari e pesanti come
armadi ma marcavano a uomo e gridavano come maiali quando non avevano la
palla. L’allenatore, uno vestito di nero, con baffetti sottili, un neo
sulla fronte e mozzicone spento tra le labbra, correva lungo la linea
laterale e li incitava con una verga di vimini quando gli passavano
vicino. Il pubblico ci si divertiva e noi, che giocavamo di sabato
perché eravamo più piccoli, non riuscivamo a spiegarci come potessero
vincere se giocavano così male. Davano e ricevevano colpi con tale
lealtà e con tale entusiasmo che dovevano appoggiarsi gli uni agli altri
per uscire dal campo mentre la gente li applaudiva per l’uno a zero e
porgeva loro bottiglie di vino rinfrescate sotto la terra umida. La sera
facevano festa nel postribolo di Santa Ana e la Gorda Zulema si
lamentava perché mangiavano le poche cose che conservava nella
ghiacciaia.
Erano diventati l’attrazione del
paese e a loro tutto era consentito. I vecchi li raccoglievano nei bar
quando bevevano troppo e cominciavano ad attaccar briga; i commercianti
li omaggiavano di qualche giocattolo e di caramelle per i bambini e al
cinema le ragazze accettavano carezze al di sopra delle ginocchia. Fuori
dal paese, nessuno li prendeva sul serio, neppure quando avevano vinto
con l’Atletico San Martìn per due a uno. Nel pieno dell’euforia
furono sconfitti come tutti quanti a Barda del Medio e sul finire
dell’andata persero il primo posto quando il Deportivo Belgrano li
sistemò con sette goal. Tutti credemmo, allora, che la normalità fosse
stata ristabilita. Ma la domenica dopo vinsero per uno a zero e
continuarono nella loro litania di laboriose, orrende vittorie e
arrivarono alla primavera con un solo punto in meno rispetto al
campione. L’ultimo scontro divenne storico a causa del rigore. Lo stadio
era tutto esaurito e lo erano anche i tetti delle case vicine e il
paese intero aspettava che il Deportivo Belgrano, giocando in
casa, replicasse almeno i sette goal dell’andata. Il giorno era fresco
e assolato e le mele cominciavano a colorirsi sugli alberi.
L’Estrella Polar aveva portato oltre cinquecento tifosi che presero
d’assalto la tribuna e i pompieri dovettero tirar fuori gli idranti per
farli stare
calmi.
L’arbitro
che fischiò il rigore era Herminio Silva, un epilettico che vendeva
biglietti della lotteria nel circolo locale e tutti quanti capirono che
si stava giocando il lavoro quando al quarantesimo del secondo tempo si
era ancora sull’uno a uno e non aveva fischiato la massima punizione,
anche se quelli del Deportivo Belgrano entravano a tuffo nell’area
dell’Estrella Polar e facevano capriole e salti mortali per
impressionarli. Sul pareggio la squadra locale era campione e Herminio
Silva voleva conservare il rispetto di sé e non concedeva il rigore
perché non c’era fallo. Ma al quarantaduesimo rimanemmo tutti a bocca
aperta quando la mezz’ala sinistra dell’Estrella Polar infilò una
punizione da molto lontano e portò la squadra ospite sul due a uno.
Allora sì che Herminio Silva pensò al suo lavoro e allungò la partita
fino a quando Padìn entrò in area e appena gli si avvicinò un difensore
fischiò. Fece uscire dal fischietto un suono stridulo, imponente e
indicò il punto del rigore. All’epoca, il luogo dell’esecuzione non era
indicato con il dischetto bianco e bisognava contare dodici passi da
uomo. Herminio Silva non riuscì nemmeno a raccogliere il pallone
perché l’ala destra dell’Estrella Polar, Rivero, detto el Colo, lo stese
con un pugno sul naso. La rissa fu così lunga che scese la sera e non
ci fu modo di sgomberare il campo né di risvegliare Herminio Silva.
Il Commissario, con una lanterna accesa, sospese la partita e
diede ordine di sparare in aria. Quella sera il comando militare decretò
lo stato di emergenza, o qualcosa del genere, e fece preparare un
treno per allontanare dal paese tutti quelli che non sembravano del
posto. Secondo il tribunale della Lega, che venne riunito il
martedì seguente, si dovevano giocare ancora venti secondi a
partire dall’esecuzione del calcio di rigore, e quel match privato
tra Constante Gauna, il cannoniere, e el Gato Dìaz in porta, avrebbe
avuto luogo la domenica dopo, ullo stesso campo, a cancelli chiusi.
Così quel rigore durò una settimana ed è, se nessuno mi dimostra
ilcontrario, il più lungo della storia.
Mercoledì
marinammo la scuola e andammo nel paese vicino a curiosare. Il circolo
era chiuso e tutti gli uomini si erano riuniti sul campo, tra le dune.
Avevano formato una lunga fila per battere i rigori contro el Gato Dìaz e
l’allenatore con il vestito nero e il neo sulla fronte cercava di
spiegare loro che quello non era il modo migliore di mettere alla prova
il portiere. Alla fine, tutti tirarono il loro rigore e el Gato ne parò
parecchi perché li battevano con ciabatte e scarpe da passeggio. Un
soldato bassino, taciturno, che stava in fila, sparò un tiro con la
punta dell’anfibio militare che quasi sradica la rete. Sul far della
sera tornarono in paese, aprirono il circolo e si misero a giocare a
carte. Dìaz rimase tuta la sera senza parlare, gettando all’indietro i
capelli bianchi e duri finché dopo mangiato s’infilò lo stuzzicadenti in
bocca e disse: – Constante li tira a destra.
– Sempre, -disse il presidente della squadra.
– Ma lui sa che io so.
– Allora siamo fottuti.
– Sì, ma io so che lui sa, – disse el Gato.
– Allora buttati subito a sinistra, – disse uno di quelli che erano seduti a tavola.
– No. Lui sa che io so che lui sa, – disse el Gato Dìaz e si alzò per andare a dormire.
– El Gato è sempre più strano, – disse il presidente della squadra nel vederlo uscire pensieroso, camminando piano.
Martedì
non andò all’allenamento e nemmeno mercoledì. Giovedì, quando lo
trovarono che camminava sui binari del treno, parlava da solo e
lo seguiva un cane dalla coda mozzata.
– Lo pari? – gli domandò, ansioso, il garzone del ciclista.
– Non lo so. Che cosa cambia, per me? – domandò.
– Che ci consacriamo tutti, Gato. Glielo diamo nel culo a quelle checche del Belgrano.
– Io mi consacro quando la rubia Ferriera mi dirà che mi vuole bene, – disse e fischiò al cane per tornarsene a casa.
Venerdì
la rubia Ferreira badava come sempre alla merceria quando il sindaco
entrò con un mazzo di fiori e con un sorriso largo quanto un’anguria
aperta.
– Questi te li manda el Gato Dìaz e fino a giovedì tu devi dire che è il tuo fidanzato.
–
Poveretto, – disse la donna con una smorfia e nemmeno li guardò, quei
fiori che erano arrivati da Neuquén con l’autobus delle dieci e mezza.
La
sera andarono al cinema insieme. Nell’intervallo, el Gato
uscì nell’atrio per fumare e la rubia Ferreira rimase sola nella
penombra, con la borsa sulla gonna, a leggere cento volte il programma
senza alzare lo sguardo. Sabato pomeriggio el Gato Dìaz chiese in
prestito due biciclette e andarono a fare una passeggiata sulla riva del
fiume. Mentre iniziava
il pomeriggio cercò
di baciarla ma lei girò la faccia e disse che forse gliel’avrebbe
permesso domenica sera, se parava il rigore, al ballo.
– E io come faccio a saperlo? – disse lui.
– A sapere cosa?
– Se mi devo buttare da quella parte.
La rubia Ferreira lo prese per mano e lo portò fino al posto in cui avevano lasciato le biciclette.
– In questa vita non si sa mai chi inganna e chi è ingannato, -disse lei.
– E se non lo paro? – domando el Gato.
– Allora vuol dire che non mi vuoi bene, -rispose la rubia, e tornarono in paese.
La
domenica del rigore partirono dal circolo venti camion carichi
di gente, ma la polizia li bloccò all’ingresso del paese e
dovettero fermarsi accanto alla strada, ad aspettare sotto il sole. A
quei tempi e in quel posto non c’erano né televisori né stazioni radio
né qualche altro mezzo per seguire cosa succedeva su un campo chiuso,
così quelli dell’Estrella Polar predisposero una specie di staffetta tra
lo stadio e la strada. Il garzone del ciclista salì su un tetto da dove
si vedeva la porta di Gato Dìaz e da lì avrebbe raccontato quello che
vedeva a un altro ragazzo che stava sul marciapiede e che a sua volta lo
avrebbe riferito a un altro che stava a venti metri e così via finché
ogni particolare sarebbe arrivato al punto in cui aspettavano i
tifosi dell’Estrella Polar. Alle tre del pomeriggio le due squadre
scesero in campo vestite come se dovessero giocare una vera partita.
Herminio Silva aveva la divisa nera, scolorita ma in ordine quando tutti
furono schierati a centrocampo andò dritto verso el Colo Rivero che gli
aveva dato il pugno la domenica prima e lo espulse. Non era ancora
stato inventato il cartellino rosso e Herminio indicava la bocca del
tunnel con mano ferma da cui pendeva il fischietto. Alla fine, la
polizia portò via a spintoni el Colo che sarebbe voluto rimanere a
vedere il rigore.
Allora l’arbitro andò fino
alla porta con la palla stretta contro un fianco, contò dodici passi e
la sistemò a terra. El Gato Dìaz si era pettinato con la brillantina e
la testa gli risplendeva come una pentola di alluminio.
Noi
lo osservavamo appoggiati contro il muretto che circondava il campo,
proprio dietro la porta, e quando si dispose sulla riga di calce e prese
a strofinarsi le mani nude cominciammo a scommettere su quale lato
avrebbe scelto Constante Gauna.
Lungo la
strada avevano interrotto la circolazione e tutti
aspettavano quell’istante perché erano dieci anni che il Deportivo
Belgrano non perdeva una coppa né un campionato. Anche i poliziotti
volevano sapere, e così lasciarono che la catena di staffette si
dislocasse lungo tre chilometri e le notizie correvano di bocca ritmate
dalle contrazioni del fiatone.
Alle tre e
mezza, quando Herminio Silva ebbe ottenuto che i dirigenti delle due
squadre, gli allenatori e le forze vive del popolo abbandonassero il
campo, Constante Gauna si avvicinò per sistemare la palla. Era magro e
muscoloso e aveva le sopracciglia tanto folte che la faccia ne sembrava
tagliata in due. Aveva tirato tante volte quel rigore – raccontò poi –
che lo avrebbe rifatto in ogni momento della sua vita, sveglio o
addormentato.
Alle quattro meno un quarto,
Herminio Silva si dispose a metà strada tra la porta e il pallone, portò
il fischietto alla bocca e soffiò con tutte le sue forze. Era così
nervoso e il sole gli aveva tanto martellato sulla nuca che quando il
pallone partì in direzione della porta sentì gli occhi rovesciarglisi
all’indietro e cadde di spalle schiumando dalla bocca. Dìaz fece un
passo in avanti e si buttò sulla destra. Il pallone partì roteando su se
stesso verso il centro della porta e Constante Gauna indovinò subito
che le gambe del Gato Dìaz sarebbero riuscite a deviarlo di lato. El
Gato pensò al ballo della sera, alla gloria tardiva, al fatto che
qualcuno sarebbe dovuto accorrere per mettere in corner il pallone che
era rimasto a rotolare in area.
El petiso
Mirabelli arrivò per primo e la mise fuori, contro la rete metallica, ma
Herminio Silva non poteva vederlo perché stava a terra, si rotolava in
preda a un attacco di epilessia. Quando tutta l’Estrella Polar si
rovesciò sopra al Gato Dìaz per festeggiare, il guardalinee corse verso
Herminio Silva con la bandierina alzata e dal muretto su cui eravamo
seduti lo sentimmo gridare : “Non vale! Non vale!”
La
notizia corse di bocca in bocca, gioiosa. La respinta del Gato e
lo svenimento dell’arbitro. A quel punto sulla strada tutti
aprirono damigiane di vino e cominciarono a festeggiare, sebbene il “non
vale” continuasse ad arrivare balbettato dai messaggeri con una
smorfia attonita.
Fino a quando Herminio
Silva non si fu rimesso in piedi, sconvolto dall’attacco, non arrivò la
risposta definitiva. Come prima cosa volle sapere “che è successo” e
quando glielo raccontarono scosse la testa e disse che bisognava tirare
di nuovo perché lui non era stato presente e il regolamento prescrive
che la partita non si possa giocare con un arbitro svenuto. Allora el
Gato Dìaz allontanò quelli che volevano pestare il venditore di
biglietti della lotteria al Deportivo Belgrano e disse che bisognava
sbrigarsi perché la sera aveva un appuntamento e una promessa e andò di
nuovo a mettersi in porta. Constante Gauna non doveva avere molta
fiducia in se stesso perché propose a Padìn di tirare e solo dopo andò
vero la palla mentre il guardalinee aiutava Herminio a stare in piedi.
Fuori si sentivano strombazzamenti festosi dei tifosi del Deportivo
Belgrano e i giocatori dell’Estrella Polar cominciarono a ritirarsi dal
campo circondati dalla polizia. Il tiro arrivò a sinistra e el Gato Dìaz
si buttò nella stessa direzione con un’eleganza e una sicurezza che non
mostrò mai più. Constante Gauna alzò gli occhi al cielo e cominciò a
piangere. Noi saltammo giù dal muretto e andammo a guardare da vicino
Dìaz, il vecchio, che rimirava il pallone che aveva tra le mani come se
avesse estratto la pallina vincente alla lotteria.
Due
anni dopo, quando el Gato era ormai un rudere e io ero un giovanotto
insolente, me lo trovai ancora di fronte, a dodici passi di distanza, e
lo vidi immenso, rannicchiato sulla punta dei piedi, con le dita aperte e
lunghe. Aveva al dito una fede che non era della rubia ma della sorella
del Colo Rivero, india e vecchia come lui. Evitai di guardarlo negli
occhi e cambiai piede; poi tirai di sinistro, basso, sapendo che non
l’avrebbe parato perché era molto rigido e portava il peso della
gloria.
Quando andai a
prendere il pallone nella porta, si stava rialzando come un cane
bastonato. Bene, ragazzo – mi disse. – Un giorno andrai in giro da
queste parti a raccontare che hai segnato un goal a Gato Dìaz, ma
nessuno ti crederà.
Il rigore più lungo del mondo di Osvaldo Soriano